mercoledì 15 settembre 2010

Il canneto

Mi trovavo in spiaggia, nel nostro solo angolino di sabbia. Erano circa le 17,30: a quell'ora il sole inizia a calare e trasmuta tutto ciò che irradia, dà una nuova forma agli oggetti.
Una sensazione strana mi pervase, mi trasmise serenità e pace e sembrò che il tempo smise di scorrere: con lo sguardo seguì Celestino che ad un tratto si alzò. Stava andando verso quella miriade di canne di bambù che facevano da contorno a tutta la spiaggetta, ne sdradicò una e se la portò con se.

Venne, con passo lento, a sedersi accanto a me tirando fuori il suo inseparabile temperino dal taschino della sua camicia indossata sempre con i primi tre bottoni sbottonati e si mise a lavorare quella canna, il suo viso prese subito quell'espressione di attenzione tipica sua con le sopraciglia corrugate. Ben presto la tagliò e la trasformò in un fischietto.
Si mise a suonarlo facendosi sfuggire ogni tanto qualche sorriso dai bordi della bocca, mi sentivo felice in quel momento. Celestino voleva mantere un'espressione seria ma non ce la faceva, ricordo i suoi occhi contenti che assunsero un taglio che ricordava vagamente una mandorla.

Ormai il sole era scomparso dietro il palazzo che vegliava sul litorale e solo pochi raggi trasparivano ancora, Celestino si alzò come se volesse farmi capire che era ora di andare a casa ma io volevo godermi quello stato di pace e volevo essere cullato dall'aria, dal sole tiepido, dal rumore delle onde infrante sugli scogli.
Celestino capì al volo, lo lessi nel suo sguardo, come a comunicarmi che era meglio godersi quegl'istanti la cui memoria sarebbe sempre di più lenita dal tempo.
Si sedette con me e stammo in silenzio ad assaporare la vera gioia di vivere. Io e Celestino

lunedì 13 settembre 2010

Il canto

Ricordo quando Celestino mi cantava la sua solita canzona in dialetto strettissimo, era un modo per farci sentire uniti in una intima condivisione degli stati d’animo.

Era una canzone dal ritmo lento, quasi un lamento messo in musica, che narrava le mille fatiche di una vita passata stando curvati nei campi. Era una canzone che mi faceva viaggiare con la fantasia quasi mi si formasse una memoria di un passato vissuto in prima persona.

Su quelle poche strofe viaggiavamo e immaginavamo; Celestino con lo sguardo basso continuava a lavorare in suo cestino di vimini ed io guardavo ammaliato da tutti quei movimenti le mani ruvide che stringevano i vimini.

Finiva di cantare e stavamo in silenzio ad assaporare la scena rievocata dalle strofe, come a volercela gustare, si sentiva solo il vento che sfiorando la nostra pelle rinfrescava il corpo dal sole battente dei pomeriggi.

Le cinque, l’ora del caffè e della solita domanda: “u fazzu puru pe’ tia?”

Celestino

Quando penso a Celestino mi viene in mente sempre la sua figura longilinea e curva su se stessa. Mi ricordo quando, boccheggiando tra un tiro e l’altro della sua perenne sigaretta, raccontava della sua gioventù, della guerra, dei bombardamenti e della fame. Mai un accenno alla paura. Mai una frase sulla voglia di abbandonare un mondo che gli era troppo stretto per poter continuare a vedere le cose con gli stessi occhi di sempre.

Nella sua testa mille pensieri vagheggiano tra le contorte e oramai deboli sinapsi, con la testardaggine di sempre nel voler ricordare anche ciò che non c’è mai stato.

Ed ora è qui, che mi tiene la mano nel suo letto di dolore mentre i suoi occhi cercano il bagliore di emozioni di un tempo, oramai passate. La sua speranza resta solamente quella di poter continuare a stringere con tutte le sue deboli forze questa mano, la mia.
Dalla fessura sotto la porte socchiusa accanto al suo letto traspira un lieve bagliore di una lampadina, è la camera della nuora che parla con suo marito.

“Speriamo non soffra” si sente in un lieve e nascosto bisbiglio.
“Si, speriamo, almeno questa soddisfazione…” risponde il figlio di Celestino, non sapendo che l’unica preoccupazione del padre ora è quella di trovare la forza di continuare a stringere con tutto se stesso la mia mano, come se volesse pregarmi di non lasciarlo, come se volesse urlare a gran voce che non vuole smettere pensare.

La sua mano stringe, pulsa, trasmette la voglia di vivere così come i suoi occhi.

Celestino è forte.