lunedì 13 settembre 2010

Il canto

Ricordo quando Celestino mi cantava la sua solita canzona in dialetto strettissimo, era un modo per farci sentire uniti in una intima condivisione degli stati d’animo.

Era una canzone dal ritmo lento, quasi un lamento messo in musica, che narrava le mille fatiche di una vita passata stando curvati nei campi. Era una canzone che mi faceva viaggiare con la fantasia quasi mi si formasse una memoria di un passato vissuto in prima persona.

Su quelle poche strofe viaggiavamo e immaginavamo; Celestino con lo sguardo basso continuava a lavorare in suo cestino di vimini ed io guardavo ammaliato da tutti quei movimenti le mani ruvide che stringevano i vimini.

Finiva di cantare e stavamo in silenzio ad assaporare la scena rievocata dalle strofe, come a volercela gustare, si sentiva solo il vento che sfiorando la nostra pelle rinfrescava il corpo dal sole battente dei pomeriggi.

Le cinque, l’ora del caffè e della solita domanda: “u fazzu puru pe’ tia?”

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